L’impianto costruttivo è quello cosiddetto “a rocchetto”: bombatura all’altezza della spalla e verso il piede a parete svasata, bocca con ampia apertura (diametro cm 20,5) ed orlo estroflesso, corpo cilindrico. Due anse laterali a forma di arpia dal corpo inarcato, le cui estremità (ali e code) serpentiformi si saldano al vaso, fungono da manici. Il manufatto mostra tutte le caratteristiche tecniche ed artistiche tipiche della grande stagione dei “bianchi” di Faenza, caratterizzati da uno smalto stannifero spesso e candido, che regala al tatto la piacevole sensazione di accarezzare del velluto. La decorazione pittorica, limitata alla parte centrale, è costituita da due putti dai capelli biondi, seduti su di un terreno accidentato, che reggono nella mano sinistra un ramoscello ed affiancano uno stemma (tre gigli di Francia d’oro in campo azzurro e tre strisce affiancate con tre oggetti indistinti poste diagonalmente su fondo bianco) entro cornice a volute manieriste sormontata da un cimiero piumato. I putti e lo stemma sono realizzati con svelti tocchi di colore, in maniera bozzettistica, nello stile “compendiario” e nei colori tipici della cosiddetta “tavolozza languida”: gialli, azzurri in varie tonalità, manganese e marroncino.
Come noto, attorno alla metà del XV secolo, per reagire anche commercialmente al monopolio degli “istoriati” del Ducato di Urbino, i maestri maiolicari faentini pensarono di creare un nuovo stile, ispirato al vasellame metallico, che affidasse soprattutto alle caratteristiche tecniche ed alle forme l’appeal dei loro prodotti, arrivando ad ottenere quello smalto il cui candore è rimasto insuperabile nella maiolica e realizzando la superficie dipinta, basata su un numero limitato di colori, con pochi, rapidi tratti di pennello. Più precisamente, gli studiosi e le fonti concordano nel ritenere l’anno di nascita dello stile compendiario il 1540, quando Pier Agostino Valladori, in contatto sia con Francesco Mezzarisa che con Calamelli, si impegnò a fornire ad Antonio Regnoli una “credenza” di 138 pezzi in maiolica bianca.
L’albarello che ci occupa è da assegnarsi ad artefice faentino operante nell’ultimo quarto del XVI secolo e, sia per le ragguardevoli dimensioni che per la mancanza dell’indicazione del contenuto, è da considerarsi un “vaso da mostra”, destinato cioè a far bella figura all’interno di una “credenza” e non sugli scaffali di uno speziale. L’opera presenta piccole integrazioni alla bocca e nei manici a forma di arpia.